Andare in Natura fa bene all’Anima. l’Antropologo ce lo spiega.

Origini del Distacco in Natura

Dal Rito Iniziatico alle Meditazioni delle Vette

 Alcuni estratti del compendio "Dalla Roccia al Samadhi"

di Damiano Tullio

Un Saggio di Ricerca in Antropologia Esistenziale e Clinica dedicato al ruolo delle attività in Natura  dall'Alpinismo alla Meditazione in Cammino, come strumenti di Consapevolezza e Cura dell'Anima.

     

Lassù provammo quel fascino quasi inestricabile di particolari sentimenti, che si suole chiamare il senso della vetta.

Il mondo esterno, l’interno e il cosmico si compenetrano a vicenda.

Eugene Guido Lammer

Alpinista Austriaco

Da “Fontana di Giovinezza”

 1.1.  Fuori dal Villaggio

Tutte le specie animali vivono secondo istinto, dal primo momento della loro nascita gli animali sviluppano metodi e strategie di sopravvivenza diverse tra loro senza doverle apprendere, sono tutti dotati chi di calde pellicce chi di denti affilati, di lunghe gambe o  corna per cacciare, correre, difendersi e ripararsi dal caldo e dal freddo.

 Le scimmie antropomorfe in particolare l’uomo sono quelle rarissime specie dotate di ben pochi pregi dal punto di vista biologico, tranne quell’organo che ci ha resi diversi seppur più fragili davanti alla natura, il cervello. Esso per noi come per lo scimpanzé richiede un procedimento molto più complesso dell’istinto, che è l’apprendimento e che fa di noi non più degli organismi biologici, ma degli esseri biculturali, fino a dire che siamo il prodotto del nostro comprendere, della nostra esperienza, dell’ambiente in cui siamo nati e  cresciuti.

Questo processo di apprendimento dell’uomo presuppone che  la nostra specie identificabile come una magra scimmia nuda debba vivere a contatto con il prossimo e con una collettività con cui confrontarsi ed evolversi-involversi quotidianamente. Questo fa di noi degli esseri umani vincolati ed intrappolati nel concetto di communitas:  dunque la socialità ci definisce e ci contraddistingue.

 In molte culture colui che vive isolato dalla società è considerato  un individuo marginale al limite di ciò che è sociale ed antisociale, spesso dotato di  particolari capacità  psichiche lo sciamano, il santo, l’ asceta o più semplicemente il folle.

La comunità è senza dubbio il luogo  dove gli individui si incontrano e tessono i loro rapporti sociali più o meno complessi, ma rappresenta anche il luogo in cui  nascono i conflitti, le ansie, le aspettative ed i malesseri che sempre più vanno ad interessare una porzione significativa della società.

Più  si ampliano i contesti urbani e maggiore diventa il senso di smarrimento dell’individuo. Le comunità locali perdono la loro identità e molto spesso il vicino diventa un estraneo, da qui ad argine di tale disorientamento nasce nell’uomo il bisogno di tornare ad un origine primigenia in cui si ricerca l’autenticità del mondo circostante sia negli orizzonti visivi  che nei rapporti umani.

Per trovare questo spazio geografico ed esistenziale arcaico custode della prima origine, è necessario decidere di muoversi al di fuori del proprio ambiente urbano ed affacciarsi verso un orizzonte vernacolare al quale tutti gli individui appartengono: la natura.

Il cambiamento consta nella decisione: questo è il primo gesto  sovversivo che l’uomo decide di fare per recarsi in quei luoghi dove ancora esiste il contrasto tra cultura e natura, tra civilizzato ed incontaminato. La natura dunque diviene una scelta mirata, una necessità di evasione e riscoperta, un riconciliarsi a radici profonde mai definitivamente recise.

 Sebbene l’uomo sia fortemente influenzato dalle derivazioni culturali alle quali appartiene, la  sua componente istintiva, ancora fortemente determinante, lo induce molto spesso ed in maniera inconscia nella direzione di una via di ritorno verso queste radici[1]. Risulta dunque necessario a fini terapeutico-esistenziali dare un libero spazio allo sguardo e all’osservazione contemplativa per disperdersi in ampi orizzonti, cercare una sorta di redenzione e riscatto estetico per gli occhi abituati a spaziare in  contesti fortemente serrati dalle architetture urbane.

Per attuare queste strategie dell’abbandono in natura è possibile attingere a ritualità e pratiche millenarie di cui esiste una ampissima documentazione, pratiche antiche ma estremamente attuali.  Nel mondo contemporaneo si sviluppano sempre più infatti filosofie che  tendono a riaccostare l’avvicinamento dell’uomo in natura come vera e propria arte dell’essere. Per dimenticare le contaminazioni dell’Io generate dalla collettività e dagli stereotipi dell’ambiente urbano, si ricerca sempre più l’ascolto della propria individualità e le relative necessità esistenziali dell’individuo[2].

 1.2 Le Radici Etnografiche del distacco in Natura

Come accennato Uomo e Collettività sono due concetti inscindibili, ognuno di noi ha bisogno dei propri simili per confrontarsi, cooperare, dialogare, esprimersi. Dall’alba dei tempi infatti esistono dei percorsi esistenziali atti per essere accettati e riconosciuti dalla collettività. Nelle società tradizionali lo status di un individuo non è sancito dalla sua nascita in quanto appartenente ad un determinato lignaggio, ma dalle azioni che lo contraddistinguono.

Percorso che per eccellenza definisce lo status di un individuo è il rituale iniziatico, tema approfondito da Van Gennep nel suo celebre saggio  “I Riti di Passaggio” riveste in numerosissime società la prova decisiva per definire la collocazione di una persona all’interno di una comunità. Durante queste prove iniziatiche la prassi comune è che l’individuo debba abbandonare la comunità, recarsi in un luogo estraneo ed ostile per poi ritornare nel gruppo ed essere nuovamente accettato[3].

Questa ritualità comune a moltissime culture è caratterizzata da una modalità simbolica specifica, il giovane  si allontanandosi definitivamente dal suo contesto di appartenenza, sancisce con questa scissione la morte del suo status. Egli rimane  una quantità di tempo indefinito in un volontario esilio rituale, e ritorna  nel gruppo riacquistando una nuova identità. Si potrebbe definitivamente affermare che l’allontanamento è quel periodo di transito in cui  l’iniziando non è ne vivo, ne morto per la comunità, è una identità sospesa, e come in un samsara ritornerà a vivere solo una volta rientrato nel grembo della sua cultura.

 Non è facile comprendere il rapporto esistente fra allontanamento in natura  ed iniziazione, tuttavia osservandone attentamente le modalità tutto appare chiaro ed estremamente efficace.  Nelle società che precedono il pensiero illuminista la natura rappresenta il timore archetipico dell’uomo, i luoghi dove non esiste cultura sono popolati da entità spirituali, molto spesso ostili, è propria del costrutto animista  infatti l’idea di conferire un’identità spirituale a montagne, sassi, grotte, fiumi, animali; più queste manifestazioni naturali sono potenti, maggiore è il rischio simbolico per l’individuo che vi interagisce.

Ogni volta che si fa il primo passo fuori dal villaggio si è spiritualmente vulnerabili sul piano simbolico, ma soprattutto sul piano oggettivo, fuori dalla comunità di appartenenza infatti si possono incontrare animali pericolosi, rischi ambientali e  gruppi culturali ostili. Tutto questo suscita negli iniziandi  quelle che sono le peggiori pulsioni riguardanti la paura, ed è  proprio  nel fronteggiarle che si ottiene la capacità di poter rinascere sotto una nuova identità.

Questa nuova identità è quella dell’uomo che non teme il mondo circostante; la natura non è più quella realtà che destabilizza e spaventa, anzi  essa assume un campo di azione il cui il giovane guerriero o cacciatore è in grado di muoversi con sicurezza e perizia,  qualità apprese le quali lo  fanno rientrare nella società non più come ragazzo, ma come uomo.

Decisive sono le modalità in cui questo distacco opera sull’individuo,  innanzi tutto occorre sottolineare che in moltissimi casi l’allontanamento dalla società è preceduto da specifici digiuni rituali o l’assunzione di particolari sostanze psicotrope che tendono  ad acuire determinate capacità percettive dell’individuo[4].

Nella maggior parte dei casi durante queste prove l’iniziato è alla ricerca di uno spirito guida o un animale totemico che possa guidarlo in questo suo percorso di morte e rinascita in natura. Questi stati di coscienza alterata indotta sviluppano un senso di percezione  che tende a focalizzare con più attenzione la realtà ed in questo  processo l’osservazione quasi ossessiva della natura che lo circonda riveste un ruolo fondamentale. A contatto con la propria solitudine l’uomo è costretto a elaborare pensieri che vanno oltre la praticità della vita quotidiana e in questi allontanamenti è inevitabile che vadano a formarsi pensieri di carattere introspettivo e metafisico, cosicché in ogni  passaggio iniziatico in natura l’individuo diventa un asceta, alla ricerca della propria personalissima illuminazione.

Tali pratiche tuttavia non appartengono solo ad orizzonti arcaici e primitivi, anzi si sono diffuse anche in seno  a tradizioni religiose e filosofiche ben più complesse come Buddhismo Tibetano, Induismo, Cristianesimo e Islam,  favorendo lo sviluppo di pratiche devozionali come l’ascetismo ed il pellegrinaggio; entrambi i casi sono frutto di sincretismi religiosi legati a tradizioni religiose precedenti, le modalità comunque non cambiano, anzi la scelta del camminare o del ritirarsi diventa ancor più radicale per la vita del credente[5].

In sistemi socio religiosi così articolati dove il dogma e le regole sono componenti integranti della vita dell’individuo, il distaccarsi dalla società per una scelta esistenziale diventa ancor di più una separazione. Il pellegrinaggio infatti viene considerato uno degli atti più anarchici nella vita del credente, esso può essere effettuato in gruppo o singolarmente ed in entrambi i casi a differenza dei ritualismi presenti nelle diverse liturgie, il camminatore , colui che sceglie di allontanarsi, segue delle regole estremamente personali affidandosi ad in sistema dialogico con la propria individualità e l’ambiente escludendo le consuete norme dogmatiche dettate dagli operatori del sacro.

Escludendo le varie tappe presso edicole o stazioni votive, durante tutto lo svolgimento del cammino che sia di un giorno o più settimane, il pellegrino non si affida ad una liturgia,  la comunicazione con il sacro viene ricercata costantemente in questo dialogo continuo con l’ambiente fatto di stupore, paura e senso del sublime. Nella vita del pellegrino il camminare diventa una scelta estrema, antisociale ed anarchica, si esula completamente l’ethos dettato dalla comunità e dalla tradizione,  la natura diventa un pantheon emozionale, una anima mundi che sviluppa nel credente tutti quei sensi di timore e meraviglia che diedero vita alle prime forme di animismo. Non a caso infatti gran parte dei pellegrinaggi arcaici europei si sono sviluppati sulle vestigia di culti arborei primitivi.

Il pellegrino vive la natura, passo dopo passo entrando in una trance iniziatica, il suo stesso orizzonte visivo viene letteralmente sovraccaricato da stimoli quali il fiore,  l’albero, la grotta, la cascata, il pendio la cresta rocciosa; il senso di comunione con gli elementi viene spesso amplificato da quelle poche  e semplici pratiche rituali  come la scelta della pietra su cui incidere le proprie preghiere da abbandonare presso i chorten negli altissimi pellegrinaggi himalayani o il trasporto dei tronchi come offerta votiva nei cammini arcaici dell’Italia Centrale. Nel cammino di Vallepietra ad esempio  i devoti sono soliti portare con se tre ramoscelli intrecciati tra loro che rappresentano la devozione verso la Santissima Trinità, antica sopravvivenza simbolica  derivante dai culti dedicati alle divinità agresti Cibele e Attis venerate in questa zona dell’Appennino alle quali venivano portati in offerta interi tronchi recisi di alberi secolari[6].

Alcune di queste pratiche vernacolari sono andate perdute soprattutto a causa di pellegrinaggi moderni che si svolgono con modalità rituali e devozionali completamente diverse, in quanto è opportuno considerare che le moderne vie di comunicazione hanno completamente stravolto alcune modalità di alcuni pellegrinaggi di origine primitiva.  Nonostante gli sconvolgimenti derivanti dalla modernità, molte  pratiche rituali legate ai pellegrinaggi sopravvivono con straordinario vigore, grazie alla volontà delle comunità locali fortemente determinate nel mantenere uno stretto rapporto fra territorio, cultura ed identità; un dato fortemente rilevante viene registrato dalla partecipazione di individui esogeni alla comunità che partecipano a tali tradizioni per puro desiderio di vivere questo tipo di esperienze in cui intimità, spiritualità  e natura si incontrano.

Dal punto di vista etnografico il rapporto uomo natura è stato eccellentemente trattato da Frazer a Taylor, ed i contributi del mondo accademico su questo tema continuano ad essere fortemente significativi indagando su tematiche sempre più specifiche.

 In questa necessaria seppur breve analisi l’intento non è quello di analizzare le singole realtà etnografiche in cui si verificano momenti di “distacco” in natura, ma offrire una panoramica di quanto sia da sempre necessario per l’uomo creare una interazione con l’ambiente naturale, l’uso di tali pratiche necessarie per l’autoidentificazione  e la ricerca vera del Sé.

1.3 Raggiungere la Non- Necessità

“Noi cerchiamo la bellezza ovunque.

E passiamo spesso il tempo così,

senza utilità (quella che piace a voi)

senza utilità (perchè non serve a noi)”[7]

 

Nulla è necessario nella nostra vita oltre ai ristretti bisogni fisiologici di sostentamento e riposo;  eppure la società impone un ordine gerarchico in relazione alle nostre azioni, spesso precostituite da un modello culturale. Capita spesso di pensare infatti che le azioni siano più o meno importanti in base al profitto che si possa ricavare da esse, specialmente secondo gli stereotipi della società capitalistica occidentale.

Eppure l’inutilità risulterebbe necessaria per avere una effettiva realtà percettiva del mondo che ci circonda, parlando del concetto di bellezza ad esempio Immanuel Kant sviluppa un pensiero radicale riguardo l’importanza dell’inutilità:

“Solo ciò che è inutile può essere veramente apprezzato da un punto di vista estetico, in quanto generalmente si è obbligati a definire bello ciò che ci risulta utile al fine di dare la nostra approvazione a un oggetto che soddisfa una delle nostre necessità. Quando ci capita di dover giudicare un oggetto inutile, l’approvazione non ci è imposta da nessun interesse, e allora il nostro giudizio è libero”[8]

Tuttavia il pensiero post moderno consumistico discosta l’individuo dalle attività contemplativo-ricreative, l’ossessione legata al concetto di investimento, tempo e ricchezza, sviluppa nel pensiero contemporaneo una profonda pulsione nell’affermazione del singolo individuo alla costante ricerca del successo. Tali processi generano regolarmente insoddisfazione e frustrazione, ogni volta che un obbiettivo atteso viene vanificato.

Da qui nasce il senso di sconfitta e solitudine dell’uomo contemporaneo, privato dei valori delle società tradizionali ed investito dal continuo desiderio di risultato ed autocelebrazione.

Pierre Hadot negli “Esercizi Spirituali e Filosofia Antica” del 1981 attribuisce un doppio significato al concetto riguardo ciò che è utile: da una parte definisce un tipo di utilità destinata ad una logica di vantaggio e profitto, ma dall’altra ipotizza un tipo di utilità legata alla ricerca e allo sviluppo dell’essere dell’individuo, che viene più generalmente ed erroneamente tradotta come inutilità.  Interessante è il pensiero di Montaigne, feroce avversore del concetto di inutilità,  sostiene che nessuna cosa e nessuna azione in natura è effettivamente inutile.

Riguardo le azioni nasce la scomoda e costante domanda su ciò che sia necessario e su ciò che non lo è; in una intervista Walter Bonatti sosteneva che la realtà sarebbe solo una minima percentuale della vita, perché l’uomo ha bisogno di sognare per salvarsi.

Secondo una logica di profitto tuttavia il tempo dedicato al sogno, alla fantasia ed alla contemplazione è tempo non utile.

Eppure tutta la nostra storia sembra ricordarci il contrario, i pensieri più profondi dell’individuo, la scelta e la crescita interiore soprattutto in seguito a momenti di crisi avviene sempre in momenti di inutilità, non è un ozio fine a se stesso, piuttosto una scelta radicale di non aderire a quello che è il senso dell’utilità, Cristo girovagò nel deserto per quaranta giorni, Govinda intraprese un viaggio dall’India al passo più alto dell’ Himalaya, nel Buddhismo Vipassana camminare in natura è uno dei quattro modi di meditare.

Riguardo la figura di Cristo, Christian Bobin in L’uomo che cammina espone la sua personalissima e poetica visione di Gesù di Nazareth:

“Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su sessanta chilometri di lunghezza e trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli sia vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po’ più fine potremmo fare a meno di quel libro e ricevere sue notizie ascoltando il canto dei granelli di sabbia sollevati dai suoi piedi nudi.”[9]

In questi esempi nulla avviene di realmente utile, non vi è profitto in questo peregrinare eppure dietro a questi singoli gesti cadenzati dal lento controllo del respiro avviene un processo percettivo straordinario. Le strategie dell’occhio cambiano e si passa lentamente dallo sguardo alla visione, dalla visione all’osservazione, così imparando a conoscere con più attenzione tutti quegli insignificanti dettagli del mondo che lo circonda, l’uomo inizia il più straordinario cammino, quello dentro se stesso[10].

 Il grande prodigio della natura è insegnare a conoscere, ma soprattutto a conoscersi, questa è senza dubbio la componente filosofica più profonda di tutte le pratiche motorie e meditative che possono svolgersi in natura,  l’uomo postmoderno  ha bisogno di questo, quando tutti i valori scientifici ed illuministici decadono, l’individuo ritrova nella sua visione primigenia del mondo, nuovi valori e simboli su cui orientare i propri desideri, aspirazioni e speranze.

In questo secolo abbiamo compreso che è necessaria una controtendenza ed una decrescita in senso evoluzionistico, più abbiamo sul piano  materiale e più rischiamo di essere infelici. Il meschino sistema capitalista  ci impone delle regole di immagine e profitto  aberranti, secondo le quali l’uomo sarebbe costretto ad un percorso esistenziale ciclico e serrato legato al profitto,  diventando un criceto che corre ossessivamente sulla sua ruota in una gabbia.

La differenza sostanziale sarebbe nella scelta, il criceto per volontà altrui  nasce e cresce in uno stato coatto, l’uomo lo sceglie per una visione esistenziale fuorviante. A tal proposito mi ritorna alla memoria un significativo graffito murario osservato durante uno studio riguardante le subculture metropolitane nella periferia romana che riportava questa frase:

“Lavori per comprarti la macchina per andare al lavoro”.

Parole decise, brevi ma pregne di significato che nella loro semplicità di una cultura di periferia non fanno altro che rafforzare teorie filosofiche ben più profonde, riguardanti la ricerca dell’essere umano a discapito del gretto materialismo consumista.

La crisi  economica degli ultimi anni testimonia il fallimento profondo del sistema, con essa il decadimento degli ideali su cui si è fondato sino ad oggi il capitalismo. Tornando al problema di utilità dunque potrebbe esserci un’inversione dei valori su ciò che può essere considerato necessario.

Ogni individuo unico ed irripetibile, attraverso la derivazione culturale e crescita esperienziale sviluppa una propria scala di priorità e valori, da qui il singolo è più o meno predisposto  ad adeguarsi a modelli esistenziali di massa, o ad uscire fuori dal gregge  per trovare una propria  via di salvezza o spinta trascendentale. La scelta volontaria  di “perdere tempo” attraverso delle attività filosofico esistenziali in natura fa  parte di queste possibilità.

Tengo  qui a precisare che è solo una delle possibilità, non l’unica poiché le scelte come motori di  sviluppo dell’individuo ed emancipazione dal disagio sono plurime, come le identità dell’uomo, occorre addestrare  la propria identità a comprendere quale sia la scelta più importante per superare gli stereotipi, le forzature ed i modelli precostituiti

Definire una propria attività come inutile, irragionevole e priva di profitto è senza dubbio il primo passaggio da affrontare,  accettare ed abbracciare una propria decisione in relazione ad uno stile di vita o un ideale rafforza l’individuo, proprio per questo nella società contemporanea, comprendere ed amare l’inutilità di un’azione è il  primo moto sovversivo per definire la libertà dell’uomo.

Accettare l’inutilità di un’azione è senza dubbio un passaggio universale per chi volesse avvicinarsi ad un certo tipo di attività in natura, ma quando l’azione che si sta compiendo oltre che essere completamente inutile richiede un notevole investimento di tempo ed economico costantemente caratterizzato da fatica, difficoltà e pericoli allora diventa un vero  e proprio processo catartico e rivoluzionario.

Svegliarsi all’alba, mettersi in marcia in un ambiente selvaggio, sotto i moti del vento, della neve della pioggia, senza curarsi del gelo invernale o della canicola estiva, soltanto per raggiungere una meta, un tragitto che conduce da un punto A ad un punto B, è un sentimento che conoscono bene, pellegrini, treckkers, mountain bikers ed alpinisti; chi scegliendo il percorso più semplice, chi ricercando la linea più elegante su una parete remota, esercitano liberamente un diritto: la ricerca della bellezza.

Niente è più inutile che rischiare la vita su una parete nord dove non batte mai il sole, eppure l’emancipazione dell’uomo la troviamo non quando arriviamo al punto di arrivo prefissato, ma in quei pochi metri intorno a noi su cui si indirizzano tutte le nostre capacità psichiche e percettive per capire come proseguire lungo quella linea ideale di salita che siamo prefissati osservando quella montagna.

Quando una passione di questo tipo viene accettata e compresa dall’individuo diventa il motore trainante della quotidianità,  un sentimento che si riversa positivamente in tutte le sfere della persona in ambito lavorativo, sociale ed affettivo, aumentando l’autostima e l’autoconsapevolezza.

La consapevolezza che si sviluppa in natura rende l’uomo più disponibile alle critiche e a rivedere ed analizzare i propri punti di vista, proprio perché molto spesso soprattutto in montagna è necessario retrocedere e farsi carico dei propri fallimenti, questo acuisce una accettazione positiva del non raggiungimento degli obbiettivi, sviluppando una visione costruttiva dell’insuccesso e la disponibilità di relazionarsi con l’altro accettando che il proprio punto di vista possa essere quello sbagliato.

In definitiva aderire all’inutilità rappresenta l’autoaffermazione del proprio essere, agendo secondo modalità prive di profitto  gli scopi, le aspirazioni e obbiettivi se pur insensati rappresentano la scelta, incompresa dai molti ma essenziale per la propria individualità, una auto attribuzione di esserci per noi stessi.

Questa affermazione del proprio essere ci rende forti delle nostre decisioni  per il semplice fatto che accettiamo le nostre responsabilità relative  all’insensatezza delle personali scelte; così chi muove il primo passo fuori dall’asfalto ed incontra la terra rivive seppur inconsapevolmente  l’esperienza dei briganti, dei pastori, dei pellegrini e dei grandi   mistici che per decisione o necessità hanno scelto di vivere il loro essere fuori dal villaggio, in una dimensione di inutilità ed asocialità costruttiva e meditativa.

Per concludere questo paragrafo trascrivo un’intervista fatta ad un pastore molisano durante un’indagine sul campo riguardante la tradizione della transumanza:

“nel 70 ho fatto il militare, parlavo solo paesano; ho visto la città, vissuto i suoi lussi ed i suoi vizi, ho studiato ed ho capito che c’era altro oltre le montagne, ma dopo due anni ho fatto la sacca e sono tornato dalle capre, perché qui c’è tutto quello che conta. Il mondo moderno rende schiavi ed infelici”

 

[1] Marazzi. A, Antropologia della visione, Carocci, Roma, 2008.

[2] Elemjimittam. A, La filosofia Yoga di Patanjali, Mursia,  Roma, 2007.

[3] Van Gennep. A, I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.

[4] De Matteis. S,  Echi lontani incerte presenze. Victor Turner e le questioni dell'antropologia contemporanea, Quaderni dell'Istituto di Filosofia, Urbino, Montefeltro, 1995.

[5] Eckel. M. D, Capire il buddhismo, Feltrinelli,  Milano, 2007.

[6] Brelich. A, Un culto preistorico vivente nell’Italia Centrale, in Carpitella. D, Folklore e analisi differenziale di cultura, Bulzoni, Roma, 1976.

[7] Marlene Kunts, Bellezza, Bianco Sporco, Virgin Records,  2005.

[8] Kant. I, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, a cura di Pietro Chiodi, UTET, Torino, 1980.

[9] Bobin. C, L’uomo che cammina, Quiqajon, 1998.

[10]  Faeta. F, Strategie dell’Occhio, Angeli, Milano, 2003.

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