L’importanza della Meditazione in ambito esistenziale e terapeutico

Saper rimanere stabili, equilibrati, in piena presenza e consapevolezza del sé, con i propri vissuti e saper offrire contenimento e comprensione empatica ai vissuti altrui, come scrive Daniel Siegel nel suo libro Mindfulness e cervello, anche dal punto di vista neuroscientifico sono due abilità strettamente correlate. Due abilità che, guarda caso, si ritrovano esattamente nel cuore di due fondamentali strumenti per la crescita personale e il benessere relazionale: Arteterapia e Meditazione.

Abilità che possono essere spiegate con studi neuroscientifici sul funzionamento del sistema Ortosimpatico e Parasimpatico, dei plessi neuronali e del sistema limbico ed emotivo. L’applicazione in ambito terapeutico di particolari tecniche che coniugano l’antica sapienza di esercizi e tecniche meditative, tratte da differenti religioni, con il rigore di un metodo scientifico che l’ideatore della Mindfulness, Jon Kabat-Zinn (University of Massachussets), ha saputo miscelare in un protocollo standard (di 8 incontri di 2 ore ciascuno) iniziato sperimentalmente intorno agli anni ‘80, ed ora, (anche grazie ai più recenti studi col brain imaging, sugli effetti positivi della meditazione sugli emisferi cerebrali e sull’organismo, svolti da Davidson, Varela, Goleman) inserito in programmi di trattamento per la salute mentale e fisica, in 250 ospedali degli Stati Uniti ed in molte università europee. Le applicazioni cliniche della mindfulness, attraverso i suoi programmi MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) e MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy) sono numerose e vanno da patologie quali la sindrome da dolore cronico, le malattie oncologiche, la psoriasi, alle problematiche psichiatriche e psicologiche quali depressione, disturbi d’ansia, attacchi di panico, disturbi alimentari. Tra le numerose ricerche attuate, è utile sottolineare due meta-analisi (R. Baer, 2003); (P.Grossam, 2004) sui risultati dei più recenti 21 studi clinici effettuati con misurazioni pre/post e/o gruppo di controllo che riportano il calcolo di un effect size (cioè una misurazione in media statistica dei miglioramenti indotti dagli interventi) di 0,59, valore che indica un effetto positivo sostanziale dei trattamenti. La conclusione della letteratura scientifica corrente suggerisce che “gli interventi Mindfulness-based possono contribuire ad alleviare una vasta varietà di problematiche psicologiche e cliniche”.

           

Già il Dalai Lama a Washington nel 2008, si era recato per parlare della “neuroscienza della meditazione” sul palco del Washington Convention Center, pronto a intervenire di fronte a 14 mila spettatori alla conferenza annuale della Society for Neuroscience. Negli ultimi anni, ha prestato circa una dozzina di monaci tibetani buddisti a Richard Davidson, autorevole esperto di neuroscienze e docente della University of Wisconsin-Madison. Le ricerche del professore hanno fatto scalpore tra gli addetti ai lavori del settore della neurologia, specialmente da quando egli ha dimostrato che, meditando per decine di migliaia di ore, i monaci erano effettivamente in grado di alterare le proprie strutture e funzioni cerebrali. Richard Davidson, 54 anni, è al tempo stesso uno scienziato di fama e un personaggio dalla forte spiritualità. È appassionato di meditazione fin dagli anni Sessanta. Quando studiava ad Harvard, ha canalizzato questo suo interesse nello studio della psicologia e delle neuroscienze. Era anche stato in India per una pausa di meditazione, per poi prendere il dottorato in biopsicologia e infine passare alla University of Wisconsin, dove attualmente dirige il Waisman Laboratory for Brain Imaging and Behavior. Il Dalai Lama è venuto a sapere dei suoi studi da altri scienziati e nel 1992 lo ha invitata a Dharamsala, in India, perché intervistasse i monaci che praticavano la meditazione intensiva a proposito delle loro esperienze mentali ed emozionali. Di quel viaggio, Davidson ricorda ancor oggi “lo straordinario potere della compassione” avvertito con tutto il suo essere alla presenza del Lama. Dieci anni più tardi, lo studioso ha avuto la possibilità di esaminare i monaci buddisti anche direttamente nel suo laboratorio. A giugno del 2002, infatti, il suo assistente Antoine Lutz ha posizionato 128 elettrodi sulla testa di Mattieu Ricard, monaco di origine francese del monastero Shechen di Katmandu, che aveva maturato oltre 10 mila ore di meditazione. Lutz aveva chiesto a Ricard di meditare sui concetti di “compassione e amore incondizionati” e aveva immediatamente notato una forte attività gamma – ovvero di onde cerebrali oscillanti a circa 40 cicli per secondo – che sta ad indicare il pensiero intensamente focalizzato. Le onde gamma sono generalmente deboli e difficili da visualizzare. Quelle emessa da Ricard erano invece evidentissime, anche in modalità elettroencefalogramma. Non solo: le oscillazioni delle diverse parti della corteccia erano assolutamente sincronizzate (un fenomeno che qualche volta si verifica nei pazienti sotto anestesia).

     

I ricercatori non avevano mai visto niente del genere. Temendo che ci fosse qualcosa di sbagliato nella strumentazione o nelle tecniche utilizzate, si fecero autorizzare a esaminare altri monaci più un gruppo di controllo formato da studenti con nessuna esperienza di meditazione. I religiosi producevano onde gamma trenta volte più potenti di quelle emesse dai ragazzi. Inoltre, presentavano aree cerebrali attive più ampie, specialmente nella corteccia prefrontale sinistra, la porzione del cervello responsabile delle emozioni positive. Davidson realizzò subito che quella scoperta presentava significative implicazioni per gli studi, sempre più diffusi, sulla capacità di alterare le funzioni mentali con l’esercizio.

Fino a vent’anni fa si pensava che il cervello si formasse durante le varie tappe evolutive, fino a fissarsi con il passaggio all’età adulta, ecco l’assunto: da quel momento in poi si formano pochissime nuove connessioni. Negli ultimi vent’anni, però, la situazione è totalmente cambiata, gli scienziati hanno riscontrato che un allenamento continuativo può fare la differenza, perché il cervello è plastico , quindi, soggetto a modificazioni. Le ricerche di Davidson hanno dimostrato che tale potenzialità può essere estesa anche ai centri emozionali. Ma lo studioso aveva visto anche qualcosa in più. I monaci avevano risposto alla richiesta di meditare sulla compassione generando onde cerebrali di straordinaria intensità. Forse tale segnale stava ad indicare anche uno stato d’animo corrispondente al pensiero su cui si focalizzavano. Se così fosse stato, ciò avrebbe voluto dire che la compassione può essere esercitata, come un muscolo; e che con un adeguato esercizio si sarebbe stati in grado di aumentare le proprie capacità di empatia. Non solo: se la meditazione poteva aumentare “attenzione e processi affettivi” – le emozioni in gergo tecnico – la stessa pratica poteva essere utilizzata anche per agire su risposte emotive negative, come la depressione.

L’ amore per la scienza coltivato dal Dalai Lama ha anche un più alto scopo: quello di liberare il buddismo dall’identificazione con una sorta di tecniche miranti unicamente ad alleviare la miseria e guidare l’umanità sulla via della perfezione calmando la mente e coltivando la compassione. L’intento del Lama è quello di svincolare tali metodi dal contesto religioso e radicarli nel settore delle neuroscienze sperando che vengano adottati su larga scala ai fini del raggiungimento del benessere dell’uomo e di una miglioramento di qualità del suo vissuto. In questo, lui e Davidson sono pienamente concordi. I ragazzi a scuola fanno educazione fisica, fa notare lo studioso. “Non sarebbe meraviglioso se facessero anche educazione mentale?” Soprattutto considerando che nei nostri progetti realizzati all’interno delle scuole, assistiamo a una completa ignoranza da parte dei ragazzi, del loro vissuto emotivo ed espressivo: urge una ri-educazione emotiva, una ri-alfabetizzazione che possa mettere i ragazzi, totalmente sconnessi da loro stessi, in contatto con le loro mappe emotive.